piazza Martiri del 7 luglio, 1 – REGGIO EMILIA
📌 Questo post è liberamente tratto dal racconto dell’architetto Mauro Severi, che nel 1999 ha diretto il restauro del Teatro Valli. Ho sbobinato e sintetizzato un suo intervento radiofonico, adattandolo al mio modo di scrivere.
Il teatro nel 1980 è stato dedicato al compianto attore reggiano Romolo Valli.
Siamo nel cuore di Reggio Emilia, una città di origine romana ma con un tessuto urbano prevalentemente medievale.
All’improvviso, la città storica si apre su un vasto spazio: è Piazza Martiri del 7 luglio, la piazza su cui si affacciano edifici importanti per la vita culturale e civile dei reggiani.
Quest'area fu resa disponibile durante il periodo napoleonico, grazie alla demolizione della Cittadella militare degli Este, e sul lato nord della piazza spicca la splendida facciata del Teatro Municipale Romolo Valli, costruito nel 1857, in pieno periodo risorgimentale.
Erano trascorsi pochi anni dalle rivoluzioni del 1848, ma la borghesia e la nobiltà cittadina vollero fortemente un nuovo teatro, dopo che un incendio aveva distrutto quello più antico.
Il teatro si presenta in uno stile tardo neoclassico: la facciata principale si affaccia su una fontana e si distingue per un elegante porticato sorretto da grandi colonne monolitiche di granito.
Nella porzione sopraelevata dell’edificio, visibile dalla facciata principale come la fila di ampie finestre sopra il portico colonnato, c’è il ridotto, dove ebbe sede la Società del Casino, un circolo esclusivo della borghesia reggiana, prima che si trasferisse nell’attuale Palazzo Tirelli, sempre nel centro storico.
Questa parte dell’edificio, oggi come allora, è un grande salone destinato a funzioni di rappresentanza, incontri e ricevimenti legati alla vita del teatro.
Sulla sommità della facciata si stagliano oltre dieci statue raffiguranti personaggi e sentimenti legati alla scena teatrale – l’amore, l’ira, l’odio – in uno stile che richiama il Teatro Olimpico di Vicenza, esempio classico di eleganza e raffinatezza.
È un’opera che riflette il gusto colto e ambizioso della Reggio dell’Ottocento, in un’Italia ancora in transizione, ma già proiettata verso l’unità nazionale.
Con questo edificio la città volle riaffermare la propria vocazione culturale.
Reggio Emilia, fin dal Cinquecento, vantava una tradizione teatrale importante, con compagnie e autori di rilievo, come Ludovico Ariosto, che scrissero per la corte estense e per il pubblico cittadino.
La costruzione del nuovo teatro all’italiana, progettato dall’architetto modenese Cesare Costa, fu dunque una dichiarazione d’identità e prestigio, in un territorio in cui si contendevano la supremazia culturale Modena, sede della corte ducale, e Parma, che vantava già da tempo il suo prestigioso Teatro Regio.
Il Teatro Romolo Valli fu finanziato con risorse locali, a testimonianza dell’orgoglio e della determinazione dei reggiani.
Ancora oggi, si presenta come un complesso monumentale perfettamente conservato, tra i più grandi e tecnicamente rilevanti dell’Ottocento italiano. Costruito in pietra e mattone a vista, con un sapiente uso del laterizio tipico della tradizione emiliana, non ha nulla da invidiare ai più celebrati teatri.
Ora entriamo attraversando questo grande porticato, per scoprire come è stato concepito dal punto di vista architettonico.
Prima di accedere alla sala principale troviamo due atri completamente decorati che fanno da filtro e introducono alla grande sala con il palcoscenico.
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Primo atrio, busto di Cesare Costa, l'architetto che progettò il Teatro Valli. |
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Primo atrio, busto di Achille Peri, compositore e direttore d'orchestra reggiano. |
Questi due atri non sono solo spazi di passaggio: hanno una funzione di accoglienza e consentono al pubblico di defluire in modo ordinato, ma al tempo stesso sono ambienti ricchissimi con decorazioni in stile neoclassico ed elementi barocchi.
Il secondo atrio ottagonale ha delle ampie aperture ad arco sostenute da semi-colonne corinzie con un effetto scenografico molto raffinato.
Non c’è un angolo che non sia decorato: stucchi, capitelli, dorature, simboli legati alla musica come la lira, porte dorate con vetri intagliati, soffitti affrescati, lampadari che spaziano dagli originali ottocenteschi fino ai liberty floreali, e pavimenti in terrazzo alla veneziana, realizzati in graniglia di marmi pregiati.
Tutto questo non è solo un esercizio di stile, ma anche un’affermazione: da un lato, della borghesia reggiana del tempo, dall’altro del ruolo culturale e sociale che la città voleva rivendicare nel proprio territorio.
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Secondo atrio del Teatro Valli, con decorazioni storiche e ingresso alla platea. |
La volta è abbellita da dodici figure femminili (Baccanti), realizzate da Giuseppe Ugolini e da medaglioni con putti in chiaroscuro ad opera di Magnani.
Se pensiamo alla Francia del 1857, possiamo immaginare l’influenza di quell’estetica: un gusto ottocentesco che anticipa, qua e là, anche qualche suggestione liberty.
È come entrare in un tempio laico.
A Reggio c'è la grande Basilica della Madonna della Ghiara, massimo esempio del barocco emiliano — come ricordava Federico Zeri — ma anche questo teatro può essere visto come un tempio, dedicato però allo spettacolo e alla vita umana, alle emozioni e ai sentimenti.
Una chiesa della rappresentazione, con una funzione profondamente diversa da quella religiosa, ma altrettanto coinvolgente.
IL RIDOTTO
Dal secondo atrio si sale a un grande scalone che conduce al ridotto, al primo piano, dove un tempo si trovavano le sale del "Circolo del Casino".
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Scalone ridotto – ©Fondazione I Teatri Reggio Emilia |
Va chiarito che la parola "casino" indicava, all’epoca, una residenza estiva di campagna, un luogo di svago. E infatti questo circolo era pensato come uno spazio dedicato al divertimento della società reggiana. Fino agli anni Sessanta qui si tenevano feste da ballo, giochi, eventi riservati ai soci.
Oggi, tornata sotto la gestione del teatro, queste sale sono state restituite alla comunità e vengono utilizzate per concerti, conferenze, incontri pubblici.
SALA DEGLI SPECCHI
Il luogo più sfarzoso del ridotto è senza dubbio la Sala degli Specchi, quella che nell’Ottocento era la sala da ballo. Dobbiamo immaginarla nel suo pieno splendore, tra il 1857 e il 1858: la vita mondana di Reggio, i valzer viennesi, gli abiti eleganti, le luci riflesse… uno spazio che ricorda, per fasto e decorazioni, le sale di un vero e proprio palazzo reale.
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Sala degli Specchi – ©Fondazione I Teatri di Reggio Emilia |
Reggio Emilia non ha mai avuto una vera residenza signorile, come i palazzi ducali delle grandi città, anche se è stata capitale estense. Eppure, in quegli anni, questo ambiente ne ha assunto idealmente il ruolo: un luogo di rappresentanza, dove la borghesia reggiana affermava la propria centralità culturale e sociale attraverso la bellezza.
La Sala degli Specchi è decorata con una successione di lesene rivestite in marmorino chiaro, in una tonalità di bianco caldo, intervallate da pannelli dipinti in verde acqua. Il tutto è impreziosito da sottili filetti in oro zecchino, che danno luce e movimento all’insieme. A rendere l’ambiente ancora più suggestivo ci sono grandi specchiere originali dell’epoca, che riflettono e moltiplicano la luce, amplificando lo spazio.
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Sala degli Specchi – ©Fondazione I Teatri di Reggio Emilia |
Una delle particolarità del teatro di Reggio Emilia è proprio la sua illuminazione. Oggi è naturalmente elettrica, ma gran parte dei lampadari sono ancora quelli originali, perché questo fu il primo teatro in Italia a essere illuminato a gas. L’impianto fu realizzato da una ditta viennese, che costruì un sistema sotterraneo per la produzione del gas, capace di alimentare l’intero edificio: dalla sala grande agli ambienti più piccoli. Una modernità sorprendente, se si pensa che siamo nel 1857.
In questo contesto, gli specchi avevano una doppia funzione: riflettevano le persone — eleganti, danzanti, protagoniste della mondanità — ma servivano anche a moltiplicare la luce, contribuendo a creare quell’atmosfera da salone aristocratico.
LA SALA GRANDE
Questa sala è il cuore pulsante del teatro. È uno spazio monumentale, avvolgente, dalla classica forma a ferro di cavallo, con quattro ordini di palchi più il loggione. Tutto è finemente decorato con stucchi in marmorino bianco di Carrara, e impreziosito da dorature che incorniciano i palchetti e ne segnano i diversi livelli.
Salendo di ordine in ordine, la decorazione si fa via via più sobria.
Il secondo ordine è il più ricco, e ospita il palco principale, un tempo riservato alla municipalità (in passato era il Palco Ducale).
All’interno, campeggia lo stemma del Comune di Reggio Emilia. Probabilmente quello ducale fu rimosso dopo l’Unità d’Italia.
Lo stemma comunale mostra una croce rossa e, in piccolo, la scritta SPQR: un riferimento alla fondazione romana della città e all’antico Senato reggiano. Reggio è una delle poche città italiane a includere ancora oggi SPQR nel proprio emblema.
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Il principale, un tempo Palco Ducale – ©Fondazione I Teatri di Reggio Emilia |
L’effetto complessivo della sala è di grande bellezza e calore: luce dorata, forme avvolgenti, colori intensi. Il palcoscenico è incorniciato da un grande boccascena decorato, con palchi di proscenio raffinati, e può essere chiuso da tre sipari diversi.
Il più tradizionale è il sipario rosso in velluto.
Poi c’è il sipario storico, dipinto da Alfonso Chierici nel 1857-58, e infine un sipario contemporaneo con una scena pastorale, opera del pittore Omar Galliani.
Il sipario di Chierici è particolarmente interessante. Raffigura il Genio delle Arti che presenta alcune tra le più importanti figure della cultura, dell’artigianato e della scienza. In origine, però, l’opera aveva un titolo diverso: l’Italia che presenta i suoi uomini illustri.
Ma il duca di Modena e Reggio, in pieno periodo risorgimentale, vietò di usare la parola "Italia", per non alimentare l’ideale dell’Unità nazionale. Il titolo venne allora cambiato ne Il Genio delle Arti, ma i reggiani non si lasciarono fermare.
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Sipario Chierici – ©Fondazione I Teatri di Reggio Emilia |
La volta della sala è infatti decorata con quattro grandi scene in cui personaggi alati volano in un cielo immaginario, rappresentando le diverse espressioni dell’arte.
La scena centrale, proprio sopra il boccascena, mostra tre figure: una vestita di bianco, una di verde e una di rosso. In modo sottile e geniale, il tricolore è stato dipinto nella cupola.
Ma c’è di più: il grande lampadario centrale, chiamato Astrolampo, pende proprio sopra quella sezione del soffitto. Dal palco ducale, la scena con il tricolore non si vede. Così, mentre i cittadini potevano alzare lo sguardo e leggere quel messaggio nascosto, il duca, ignaro, ne restava escluso.
Mauro Severi continua a raccontare che partecipare al restauro del teatro è stata un’occasione esaltante, resa possibile dalla straordinaria collaborazione tra tutto il personale del teatro e i restauratori coinvolti. L’intervento è stato programmato nei mesi estivi, così da non interferire con la stagione teatrale.
Il risultato è stato sorprendente. Nella sala grande del palcoscenico, sotto strati di colore accumulati nel tempo, è riemerso il marmorino originale: uno stucco lucido con polvere di marmo, che rivestiva i parapetti e le balconate di tutti gli ordini. Sono riapparse anche le dorature e i rilievi in legno e stucco che arricchiscono l’intera struttura.
Una particolarità curiosa: i pannelli centrali degli stucchi, presenti nei vari ordini dei palchi, sono realizzati in cartapesta. Per restaurarli è stato necessario smontarli, e lì è avvenuta la scoperta più affascinante.
La cartapesta, infatti, era stata realizzata con pagine di libri. Durante il lavoro, sotto la foglia d’oro zecchino che li ricopriva, si sono potuti leggere i testi ancora visibili: romanzi, racconti, frammenti di pensieri. Come se, dietro alla bellezza visibile, ci fosse un racconto segreto.
Un doppio livello di narrazione, quindi: quello pubblico, sul palcoscenico, dove si rappresentano le emozioni, la vita e i sentimenti umani. E quello nascosto, silenzioso, impresso nella carta che compone gli stucchi delle balconate. Un racconto invisibile, che scorre lungo le pareti del teatro, come una memoria sottile e preziosa, custodita nel cuore stesso della sua materia.
IL DIETRO LE QUINTE
Il teatro è un organismo complesso, molto più grande di quanto il pubblico possa immaginare. Quella che si vede dalla platea è solo una parte — forse il 40% — di tutto ciò che serve per far vivere uno spettacolo.
Il resto è fatto di spazi tecnici, locali di servizio, passaggi nascosti, scale, ballatoi, laboratori.
Una delle cose più straordinarie è proprio questa "città invisibile" che lavora dietro le quinte.
Nei sotterranei, un tempo, veniva stoccata la legna per il riscaldamento; c’erano i locali dove si produceva il gas per alimentare l’impianto di illuminazione, e ancora oggi si trovano gli ambienti dove si conservavano le scenografie e le macchine sceniche, alcune ancora funzionanti.
E poi ci sono gli uffici amministrativi, le sale prova per gli artisti, le stanze per l’orchestra.
Ogni palco della sala grande corrisponde a una piccola stanza privata: qui, le famiglie che avevano diritto al palco potevano ritirarsi, sorseggiare qualcosa, ricevere ospiti, conversare. Poi tornavano a sedersi nel momento più atteso dell’opera, per ascoltare le arie più celebri. Il teatro era anche un luogo d’incontro sociale, uno spazio di relazione e rappresentazione pubblica.
Il palco oggi riservato al sindaco era un tempo quello del governatore. È collegato da una scala nascosta a vari livelli del teatro e conserva ancora oggi una retro stanza arredata con i mobili originali: uno spazio intimo in cui, ancora adesso, è possibile accogliere qualcuno durante l’intervallo — anche se, naturalmente, la vita pubblica ha cambiato i suoi luoghi e le sue dinamiche.
LA BUCA D'ORCHESTRA
La sala grande, con il suo golfo mistico (buca d'orchestra), lo spazio ribassato e nascosto tra il palcoscenico e la platea, è un vero strumento musicale: costruita in legno, stoffa e stucco, vibra insieme alla musica.
Quando l’orchestra suona, risuona tutto lo spazio. Non c’è bisogno di amplificazione: anzi, spesso i suoni amplificati risultano meno gradevoli, proprio perché questo teatro è stato pensato per funzionare in armonia con le voci e gli strumenti acustici.
I BALLATOI
Ora ci troviamo sui ballatoi, sospesi sopra il palcoscenico: da qui si domina tutta la scena. È un luogo affascinante, quasi irreale, che ricorda le prigioni visionarie incise da Piranesi. Intorno a noi, corde, carrucole, scalette, ruote di legno. Le attrezzature originali servono ancora per eseguire i "tiri di scena": scenografie che salgono e scendono, sipari che si aprono, elementi che entrano ed escono con precisione millimetrica.
Alcune strutture verticali in legno erano usate per arrampicarsi fino in alto, ma oggi non sono più accessibili per motivi di sicurezza. Altri ballatoi attraversano l’intera bocca della scena da un lato all’altro, tutto rigorosamente in legno. La struttura originaria è stata conservata, ma l’impiantistica è stata aggiornata per permettere l’uso moderno di luci ed effetti speciali.
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Ballatoio – ©Fondazione I Teatri di Reggio Emilia |
Un tempo, però, gli effetti scenici si creavano con ingegno, non con la tecnologia. Ancora oggi, nei sotterranei, si trovano le antiche "macchine del suono": quella della pioggia, ad esempio, è una ruota in legno e lamiera, riempita di ghiaia. Facendola girare, si può riprodurre l’intensità della pioggia: da una leggera pioggerella a un temporale. Poi, la macchina del tuono: basta aumentare la velocità, e si sente il rombo scorrere lungo le pareti.
Quando queste macchine vengono azionate, è come se il teatro tornasse in vita. Raccontarle non basta: bisogna vederle, sentirle. Ci si trova immersi in un mondo affascinante, fatto di corde, cavi, ruote, leve — tutto così ingegnoso da sembrare uscito da una mostra di macchine di Leonardo da Vinci.
GRATICCIA
Nella graticcia, una struttura a maglia di travi, situata nella parte più alta del palcoscenico, ci sono ancora le ruote per avvolgere i cavi, i sistemi a contrappeso che permettono di muovere le scenografie da terra, senza dover salire. Tutto è autentico, tutto parla della maestria tecnica e artistica che rende vivo un teatro.
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Graticcia – ©Fondazione I Teatri di Reggio Emilia |
L'ASTROLAMPO
Stiamo salendo. Come nella biblioteca de Il nome della rosa, ogni scalino ci conduce sempre più in alto, sopra la sala grande, verso un luogo nascosto e quasi irreale. È un labirinto silenzioso, un mondo sospeso che custodisce un segreto: la manutenzione del grande lampadario, che qui viene chiamato Astrolampo.
Astro, perché ha la forma di una stella. Lampo, forse per l’effetto improvviso e abbagliante che produceva quando veniva acceso a gas.
Siamo quindi al di sopra della sala, nel cuore della copertura. Tutto è in legno: la volta è costruita con una struttura a cassettoni, anch’essi in legno, sopra la quale si stendono listelli e uno strato d’intonaco.
Al centro della volta c’è un foro, una graticciata da cui passano i cavi che sorreggono il celebre lampadario. È un oggetto magnifico: acciaio, legno dorato e vetro. Originariamente alimentato a gas, veniva sollevato proprio fino a questo spazio, attraverso grate mobili, per essere pulito e ricaricato. Qui, al riparo da occhi indiscreti, si poteva lavorare con agio e in sicurezza.
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Sala situata sopra la volta affrescata del teatro, usata per la manutenzione dell'Astrolampo ©24 emilia.com |
Ma questa apertura non serviva solo per il lampadario. Era parte anche di un ingegnoso sistema di ventilazione naturale: quando il teatro era affollato e la temperatura aumentava, si aprivano le grate per far uscire l’aria calda in eccesso, favorendo un ricambio d’aria dall’alto.
Il sistema conserva ancora oggi l’appoggio per i tubi di piombo che portavano il gas. Ed è impossibile non restare colpiti dalle capriate: enormi travi in legno provenienti dal Trentino, ancora con la ferramenta originale. Queste capriate distribuiscono il peso della copertura sui lati, lasciando completamente libero lo spazio sopra la sala.
Queste travi hanno una storia tutta loro: si racconta che, al momento del trasporto, fu necessario realizzare strade provvisorie fuori dai piccoli paesi di montagna, perché i tronchi — lunghi anche 15 o 18 metri — non riuscivano a passare tra le strette vie dei centri abitati. La stampa dell’epoca parlò dell’impresa come di un evento straordinario: alberi monumentali per un teatro monumentale.
Un pezzo di bosco Trentino che oggi vive sospeso sopra le teste degli spettatori del Teatro Municipale di Reggio Emilia.
LA SALA DEI PITTORI
Ancora più in alto della sala di manutenzione del lampadario, si apre un ambiente immenso: la cosiddetta Sala dei Pittori. Una sala che ha le stesse dimensioni della platea, e non per caso. Qui, infatti, si dipingevano le scenografie, grandi quanto l’intero palcoscenico.
È qui che, nel 1991, è stato realizzato anche l'ultimo bellissimo sipario del teatro: un'opera intitolata Siderea, ideata ed eseguita dal pittore reggiano Omar Galliani, rispettando la tradizione che ha voluto reggiani anche gli altri due sipari ottocenteschi: quello di Alfonso Chierici e di Giovanni Fontanesi.
Ogni fase della sua realizzazione è stata documentata con cura da un servizio fotografico di Luigi Ghirri.
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Sipario Siderea – ©omargalliani.com |
La Sala dei Pittori era un vero e proprio laboratorio: i pittori lavoravano su tele enormi, usavano colori, scaldavano la pece per preparare le colle, tracciavano fondali che poi venivano calati direttamente in scena attraverso un’intercapedine verticale. Bastava srotolarli, e la magia del teatro prendeva forma.
Questo spazio è un paradiso sospeso sopra la città. Le pareti sono punteggiate di finestre a mezzaluna, da cui entra la luce naturale da ogni lato. È una luce che aiutava i pittori a lavorare con precisione, ma che oggi regala a chi entra la sensazione di essere tra le nuvole, in mezzo ai tetti, alle guglie e alle torri.
Qui si ha l’impressione di trovarsi tra due mondi: quello reale, che si vede là fuori dalle finestre, e quello simbolico, emotivo, che si rappresenta ogni sera in scena. È il teatro della vita che si riflette nella vita del teatro, in un continuo scambio tra ciò che siamo e ciò che rappresentiamo. Ognuno, a suo modo, attore della propria quotidianità.
Ma la bellezza di questa sala non è solo poetica: è architettonica, concreta. La struttura è coperta da capriate in legno lunghe anche 15 o 18 metri, realizzate in pezzi unici, vere opere d’artigianato. Ogni elemento – il legno, i ferri battuti, i sistemi di incastro – racconta un sapere antico, un’arte del costruire che oggi si stenta a trovare. Questo è un museo del fare, una lezione continua di architettura e maestria.
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Sala dei Pittori – ©visitareggio.it |
Chi lavora qui, dopo un po’, diventa parte di tutto questo. Custodisce ogni dettaglio con orgoglio e affetto. I tecnici che operano nel teatro sentono la responsabilità di conservare ogni decorazione, ogni stucco, ogni oggetto. Quando c’è da intervenire, ti chiamano e chiedono: "Secondo te, possiamo farlo?". Sono diventati i custodi gelosi di un patrimonio vivo, non solo artistico ma identitario.
Perché questo teatro non è solo un luogo dove si rappresentano spettacoli. È lui stesso uno spettacolo. È un museo che funziona, un organismo che vibra.
E proprio per questo, va curato ogni giorno. Non sono i restauri eccezionali a salvarlo, ma la manutenzione quotidiana. È lì che si gioca la vera conservazione: nel rispetto quotidiano di ciò che è stato costruito con arte, passione e sapienza.
Come diceva Toscanini, e come dicevano Verdi e Pavarotti: questo teatro è uno dei migliori d’Italia per l’acustica, ma è anche uno dei più amati da chi ci lavora, perché lo sente proprio. Perché lo protegge. Perché lo ama.
Molti non sanno che il debutto ufficiale di Luciano Pavarotti avvenne proprio qui, al Teatro Municipale di Reggio Emilia, con La Bohème, in occasione della vittoria al concorso lirico "Achille Peri".
Mauro Severi conclude dicendo che in questa terra il legame con l’opera è profondo: ogni famiglia ama la musica, conosce l’opera, e spesso anche le romanze a memoria. È un sapere popolare, condiviso, che fa parte di questa identità culturale.
RUBINSTEIN E MIA NONNA SARA
È proprio vero che da queste parti l'opera è un sapere popolare.
Nella mia famiglia era parte del quotidiano: mio nonno paterno, Vivaldo, non era ricco nè colto, ma era un melomane, amava profondamente la musica lirica e in casa a Reggio Emilia possedeva alcuni dischi che ascoltava ogni volta che poteva.
Sua moglie, mia nonna Sara, condivideva questa passione, la quale scrisse una poesia ispirata a un'esperienza vissuta al Teatro Valli.
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-Tutte le foto sono di Monica Galeotti, eccetto alcune come da copyright indicato.